Remote work has sold us an illusion. {Italian, please translate}

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Dopo dieci anni di nomadismo digitale ho capito che lavorare da remoto non è la soluzione.

Se odi quello che fai, odiarlo da Bali non lo renderà migliore, anzi.

Però attenzione. Questa ossessione per la fuga racconta una verità:

in molti stiamo scappando da qualcosa.

Pensiamo che forse, cambiando luogo, ci lasceremo il problema alle spalle.

Ma quando poi partiamo le cose non cambiano.

Dopo due o tre settimane di viaggio le endorfine cominciano a calare,

e allora il prurito invisibile torna a farsi sentire.

“Alt. Tu cosa stai facendo della tua vita? come la vuoi vivere?”

Perché sono “il cosa” e “il come” a dare senso al tutto, non il dove.

Invece la società che abitiamo ha indebolito la struttura psichica delle nostre certezze. Chi siamo? Cosa facciamo? Qual è il senso?

È crollata la centralità della famiglia, delle religioni, della spiritualità.

Credere in qualcosa è diventato quasi difficile o faticoso.

E allora siamo tutti a caccia di senso.

E pretendiamo che ci sia, anche nel nostro lavoro.

Il problema?

Un lavoro con significato non si trova, si costruisce.

Mattone dopo mattone, scelta dopo scelta.

E anche quando lo crei, c’è sempre il rischio che i social media te ne facciano disinnamorare, spingendoti invece a desiderare qualcos’altro.

Qualcosa che non hai.

Magari un lavoro diverso.

O forse, la vita di qualcun altro.

E qui allora arriviamo al paradosso della nostra generazione:

non è la mancanza di opportunità che ci paralizza…

È l'eccesso di possibilità.

Soffriamo di obesità,

ma è un’obesità di desiderio.

Internet ci mostra infatti scelte infinite:

vite, identità, lavori, verità, vestiti, prodotti, contenuti.

È tutto illimitato.

E questa abbondanza di scelte ci opprime ancor più di quanto ci liberi.

La soluzione?

Decidere.

"Decidere" viene dal latino "de-caedere". Tagliare via.

Ogni decisione significativa richiede il coraggio di uccidere le altre versioni di noi stessi.

Il problema è che preferiamo restare in questa nebbia di potenzialità infinite piuttosto che scegliere una direzione e camminare.

La domanda non è quindi

"come trovo un lavoro significativo?".

La domanda diventa: "come do significato a questo momento, a questa giornata, a questa vita?".

Per farlo occorre ridurre il perimetro della nostra vita e della nostra identità.

Devo decidere cosa voglio vivere e chi voglio essere.

Io e Denise, ad esempio, siamo stati nomadi digitali per anni.

Abbiamo vissuto il sogno che tutti sembrano inseguire.

Poi, pochi mesi fa, abbiamo fatto qualcosa di impensabile:

abbiamo comprato una casa in un piccolo paese del Trentino.

Non perché avessimo bisogno di quattro mura.

Avevamo invece bisogno di credere in qualcosa.

Ridurre le scelte. Scegliere la nostra quotidianità.

Trasformare la routine in rituale.

Rendere sacra la normalità.

Volevamo essere artigiani della nostra realtà.

Che per me significa pormi una sola domanda:

“Se dovessi rivivere per sempre la stessa giornata, come vorrei che fosse?”

Trovare la risposta a questa domanda significa trovare il nord della propria bussola interiore.

Rimanere sereni davanti a una società che vuole venderti l’infinitamente possibile.

E per farlo occorre investire su un luogo, scegliere delle amicizie da curare per la vita, avere degli hobby da alimentare nella quotidianità.

E certo, anche costruire una carriera che, seppur sfidante, ci offra delle sfide per cui ha senso impegnarsi.

Selezionare, tagliare, ridurre.

E celebrare le scelte prese.

Viviamo in un mondo che ci spinge a desiderare il più possibile.

E come dice qualcuno:

“il desiderio non è altro che un contratto che facciamo con noi stessi per procrastinare la nostra felicità”.

"Sarò felice quando avrò quel lavoro",

"Sarò felice quando potrò viaggiare"

"Sarò felice quando...".

Ma la felicità non sta nell'espansione infinita delle possibilità.

Sta nel saper dire: questo è abbastanza.

Questo è casa.

Questa è la mia normalità.

E ora la rendo sacra.

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